Perché ci piace la trap (e perché non piace ai nostri genitori)

Quando ho iniziato a scrivere questo articolo, ancora prima di scrivere trap su Google, ho fatto la prima domanda a mia sorella diciassettenne.
“Perché ti piace la trap?”
Mi ha dato la risposta più adolescenziale che si possa immaginare.
“Perché, cioè, non è fatta dai vecchi. È da giovani.”

E avete ragione, mia sorella non capisce nulla di musica, ma questa frase racchiude l’essenza della trap, che oscilla tra moda e genere di rottura.

Cosa è, di preciso, la trap

La trap nasce solamente negli anni 2000; prende il nome dalle trap houses americane, case abbandonate utilizzate per lo spaccio. La crescita in Italia è ancora più recente e si lega al boom di Sfera Ebbasta nel 2014, ma anche alla nascita di Dark Polo Gang, Ghali e Achille Lauro. Va da sé che i principali ascoltatori di questi artisti abbiano la stessa età (Capo Plaza è classe ’98) o qualche anno in meno dei loro idoli.

Come è stato per il rap qualche anno fa, la trap ha ricevuto e continua a ricevere un susseguirsi di critiche. Queste sono legate, la maggior parte delle volte, a testi che parlano di una vita sregolata; parlano di uso – e abuso – di droghe, di una sessualità venata di maschilismo e di una ricchezza da ostentare il più possibile, di un “avercela fatta” che deriva esclusivamente dal denaro.

La ragion d’essere

Non si può negare, comunque, che la trap sia il fenomeno musicale della fine del decennio. E a cercare bene, le ragioni si trovano. Secondo Paola Zukar, manager di alcuni tra i più importanti rapper italiani, “la trap italiana è molto seguita per due motivi. Il primo è la noia della musica italiana che con i suoi testi d’amore sempre uguali non riesce a rinnovarsi. Il secondo è che la trap è la colonna sonora di Instagram, adatta a fare da sfondo musicale alle stories. È un genere che non richiede troppe capacità tecnico-artistiche. Però, come il punk, è una fotografia del disagio contemporaneo. Usa parole vuote che servono a sottolineare il vuoto, la mancanza di tempo, l’estrema brevità e superficialità del mondo in cui queste stesse canzoni vengono ascoltate. YouTube, Spotify, tutto gratis, tutto veloce… ma vuoi anche il messaggio?”

Diventa un processo quasi automatico allora bollare la trap come rovina del nostro tempo, passaggio obbligato e slancio decisivo alla tossicodipendenza. A muovere queste critiche, però, è generalmente chi la trap non l’ha mai ascoltata; chi non nota quanto questo genere si discosti tecnicamente da ciò che siamo abituati ad ascoltare. La trap non racconta una storia; esprime un’estetica.

Punti di vista

All’inizio di novembre, la trasmissione Fuori dal coro ha mandato in onda su Rete 4 un servizio che dipinge la trap di un solo colore: i nostri figli, ascoltandola, rischiano di “drogarsi perché glielo dicono i trapper, di parlare come imbecilli e di vestirsi tutti strani”.

Certo, l’archetipo del saggio adulto che ne sa di più del ragazzo è vecchio come il tempo. Arrogarsi il diritto di sapere come si deve parlare e cosa indossare, però, è un’altra cosa. È innegabile che i testi dei trapper esaltino spesso l’uso di sostanze stupefacenti. Un occhio più attento, però, nota il degrado che gli stessi artisti associano all’uso di droghe pesanti: dagli ambienti fumosi e degradati dei video in cui se ne parla, ai testi in cui il consumo è associato ad un profondo disagio interiore. Riporto qui un estratto del brano Rehab di Ketama126: 

Parlo sempre di droga perché non facciamo altro
Non ho contenuti perché sono vuoto dentro
Lei mi crede carino
Ma non sa che faccio schifo

Questo non è un invito alla tossicodipendenza; piuttosto, un monito. Non può fare a meno di ricordarci, poi, le liriche di buona parte della musica popolare: dai Beatles ai Rolling Stones, dagli Afterhours a Eugenio Finardi. La droga è stata ampiamente raccontata dalla musica (e sì, a volte esaltata) perché legata a quell’ideale di musicista bohémien che non vive la stessa vita dei comuni mortali.

Un estratto dal video di Rehab di Ketama126
Quelli che non ci voglion bene

I detrattori della trap, per citare Bandiera Gialla, non ricordano di esser stati ragazzi giovani, o di quando l’Istituto Luce diceva che “oltre il cancro e l’infarto i nostri tempi hanno un terzo malanno: il rock and roll” descrivendo uno dei primi concerti di Adriano Celentano. Ciò non ha impedito al genere di diventare un’istituzione universale. Quello che spesso sfugge, però, è che non sono stati il rock o il punk a spingere i giovani al consumo di eroina degli anni ’80, quanto il contesto in cui erano inseriti.

Possiamo concludere dicendo che viviamo in un periodo musicale in cui la battaglia tra Spirito e Materia è rappresentata, nella scena italiana, da indie e trap.
I Millennials, alle prese con le prime angosce “adulte”, si rifugiano nella comprensione offerta dal primo genere. La più recente Generazione Z, però, ha bisogno degli stimoli forti, dello sfarzo e delle promesse di felicità che la trap è in grado di mettere in scena. Sicuramente quest’ultima ha un carico di messaggi che non si può ignorare, ma che non può nemmeno essere censurato. I problemi sociali che tanto ci indignano andrebbero analizzati, capiti, risolti.
Prima nella società e poi nelle canzoni.