Storie di umanità sacrificate alla ricerca della verità

Sara Ceracchi racconta “Rapito”, pellicola di Marco Bellocchio sulla vera storia del rapimento di Edgardo Mortara avvenuto nel 1858, in sala dal 25 maggio

Foto www.annacamerlingo.com

Dietro gentile invito di Luca Rallo, ho il piacere di condividere su questo blog – che a febbraio aveva così ben parlato del mio mediometraggio “Come fossi una bambola” (in streaming su Chili) – le mie impressioni su “Rapito“, di Marco Bellocchio, in sala dal 25 maggio.

Credo la storia sia nota a chi segua il Cinema e la stampa dedicata, ma la riassumiamo in due parole: nel 1858 un bambino ebreo, Edgardo Mortara, viene sottratto alla sua famiglia d’origine, poiché, in quanto battezzato (in segreto), secondo le leggi dello Stato Pontificio doveva essere educato cristianamente, o, in alternativa, per riaverlo indietro, tutta la sua famiglia avrebbe dovuto convertirsi. La narrazione di base la considererei però un MacGuffin, come quelli di Hitchcock, ossia un pretesto: perché come per ogni grande film, alla fine si rimane a interrogarsi non su cosa ci sia giusto o sbagliato nella vicenda, ma sul senso della vita di ognuno (anche di quella di Cristo).

La storia infatti si può leggere dal punto di vista della famiglia ebrea dei Mortara, ai quali viene sottratto un figlio di 6 anni: i genitori, i fratelli, e la comunità israelitica di Bologna subiscono un sopruso, che prelude a soprusi ben più atroci che di lì a meno di un’ottantina d’anni subiranno gli ebrei d’Europa, e che nella narrazione di Bellocchio squarcia la sensibilità dello spettatore, anche il più granitico.

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Si può leggere dal punto di vista della fede cattolica, secondo la quale gli ebrei sostengono una fede sbagliata perché aspettano ancora il Messia, quindi anche un gesto violento come quello di rapire un bambino per educarne l’anima alla dottrina cattolica, è funzionale al sostegno dell’unica verità: in questo senso, i rapitori, dal loro punto di vista, si sentono indiscutibilmente nel giusto. Tra l’altro, i personaggi che popolano il collegio papale in cui Edgardo viene trasferito, non hanno nulla degli educatori cattolici perfidi o pedofili o rigidi cui tanta narrazione ci ha assuefatto: sono al contrario (sebbene invasati) abbastanza amorevoli, attenti, e sinceramente votati alla loro missione educatrice.

Oppure “Rapito” si può leggere dal punto di vista che ci accomuna tutti, quello laico: liberare Edgardo è liberare l’Italia e la coscienza civile degli italiani. Il film è anche un piccolo meraviglioso affresco storico sui moti rivoluzionari, sulla nascita dello stato di diritto, sulla storia dell’Unità fino alla breccia di Porta Pia (20 settembre 1870).

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Nonostante il senso di ingiustizia nei confronti dei Mortara sia palese, tra tutti questi punti di vista si fa appunto fatica a sceglierne uno: potrebbe essere condivisibile anche quello di Pio IX, sicuramente un personaggio negativo, ma che, come in ogni opera degna di essere a noi contemporanea, non può essere solo questo. Vediamo un vecchio, suo malgrado invasato e prigioniero del proprio ruolo, che si sente sinceramente padre dei bambini educati alla sua corte, che si bea dei loro giochi all’aria aperta forse sognando di non essere nessuno, e poter avere famiglia e figli, piuttosto che essere l’ultimo papa Re.

Certo, il centro di tutto è Edgardo: il piccolo assorbe gli insegnamenti che gli vengono imposti fino a farli suoi, e li rinnega e li riabbraccia, come succede in qualunque percorso di fede, che altro non è che la ricerca di un senso alle ingiustizie, alle sofferenze, alle miserie umane.

La scena del bambino che di notte si arrampica sull’altare, toglie i chiodi a Cristo, che liberato da tutti i supplizi esce finalmente dalla chiesa senza neanche salutare, è il momento più forte di tutta la pellicola, il più intenso da sostenere: quello che riesce a procurare un senso condiviso a tutta la straordinaria narrazione di Marco Bellocchio, e che basta da solo a descrivere tutto quello che ho cercato di spiegare.

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